A seguito dell’emergenza legata alla pandemia di Covid-19 l’Italia ha scoperto, o riscoperto, il valore del remote working. I dati del Ministero del lavoro mostrano che, durante il lockdown, sono stati 1.606.617 i lavoratori che hanno iniziato a “telelavorare”, rispetto ai 221.175 che lo avevano adottato precedentemente.

Questa esperienza forzata ha portato quindi a un’accelerazione dello smart working nel nostro Paese dove, sebbene circa il 40% delle funzioni aziendali sia potenzialmente smart, solo l’1% applica concretamente questa modalità di lavoro. Non dipende solo dal management: i professionisti stessi, per la maggior parte, dichiarano di non sentirsi pronti allo smart working.

C’è una bella differenza tra remote working e smart working. La prima dicitura si riferisce semplicemente alla possibilità di lavorare dalla propria abitazione o, comunque, non presso gli spazi aziendali; la seconda, invece, prevede un’organizzazione di fondo che riguarda elementi strutturali e di welfare, tool e strumenti necessari per lavorare al meglio. Elementi che devono essere garantiti dall’azienda, naturalmente. Lo smart working è, a tutti gli effetti, un nuovo assetto organizzativo, agile.

Si stima che, in Italia, l’incremento di produttività in caso di implementazione di lavoro agile maturo toccherebbe i 13,7 miliardi di euro. Aumenta anche la produttività, come dichiarato da circa il 40% dei lavoratori, parallelamente all’ottimizzazione del proprio tempo.

Lavorare da remoto implica certamente una necessità di riequilibrare i ritmi e gli spazi di lavoro con quelli familiari: si parla di work-life balance e sarà una delle aree di intervento di maggiore interesse dei prossimi anni per chi si occupa di welfare aziendale.

Per garantire le giuste condizioni di lavoro da remoto è necessario ripensare agli elementi che sono alla base del lavoro stesso: connessioni stabili e veloci, spazi attrezzati e sufficientemente isolati, webcam di buona qualità, strumenti di collaborative working per la gestione condivisa delle informazioni e degli asset aziendali, tools per il monitoraggio dei progetti, orario di lavoro flessibile ma coerente con eventuali vincoli organizzativi così da favorire il raggiungimento degli obiettivi senza cannibalizzare i tempi e gli spazi della vita privata.

Solo a queste condizioni lo smart working funziona al meglio. Al centro di questa concezione c’è la priorità affidata ai progetti e ai risultati e, soprattutto, il valore della fiducia: i lavoratori hanno più autonomia e, quindi, più responsabilità.

Ma al di là dell’aspetto puramente produttivo e/o tecnologico, lo smart working comporta una riflessione su elementi più umani: parliamo di socialità e rapporto con gli altri. Lo smart working aliena o disumanizza il lavoro?

In Mediamorfosi adottiamo da tempo un approccio smart al lavoro, ma senza dimenticare l’importanza del confronto, di una chiacchiera, e di un caffè, anche se virtuale! È quello che abbiamo fatto anche in questi mesi, spostando il tradizionale caffè alla macchinetta su Zoom o Skype, ognuno dalla propria abitazione; è stato un modo per conoscere anche qualcosa in più dei nostri colleghi.

Abbiamo davvero bisogno di essere in uno stesso ufficio per scambiarci opinioni, aggiornamenti sulle ultime novità; per parlare delle serie tv che stiamo guardando o dell’ultimo libro che abbiamo letto?

Il lockdown ce lo ha ricordato bene: esiste una videoconference per tutto. In video possiamo fare formazione, lavorare in team anche a distanza. Allo stesso modo, possiamo usare la tecnologia per coltivare i rapporti umani.

Ciò non significa rinunciare definitivamente alla condivisione. Esistono, ad esempio, modelli ibridi in cui il lavoro si svolge parzialmente in smart working, mantenendo una componente in presenza.

Ogni azienda può trovare la soluzione più idonea al proprio team e alla propria attività. Anche questo significa essere smart.